Maria Lia Lotti

Dicono che c’è più luce


Queste poesie, ora che sono un libro, vedo che non si possono leggere chiusi in una stanza. Meglio camminando, o seduti sulle colline ai piedi di un albero. Leggendo cominciano ad arrivare gli autunni, e le foglie e gli usignoli. Ci sono tanti di quegli alberi fra queste pagine, e animali e profumi, e vento e vigne e nuvole … che bisogna scrivere dopo, rientrando a fatica nell’emisfero logico che riflette e tiene, dall’altro, quello mistico che abbandona e perde.
Si comincia con una domanda:

Io chi sono, dentro i confini dove respiro.

ma il verso non finisce neppure col punto interrogativo, che già irrompe un altro stato dell’essere che risponde:

Esisto nel mondo che penso, come l’erba
che non confina col prato, come
foglie che filtrano la luce e vivono di luce.


Ecco, l’andamento di questa poesia è andare fuori sulle colline, lasciare i tempi e i luoghi, perdere gli impegni e le certezze, e governare la mente verso un altrove. Basta uno stelo. E la concentrazione si fa meditazione e cambiamento, la poesia diventa il frutto pregiato della disciplina della mente.
Abbandonare il possesso, l’identità, l’attaccamento, l’avversione … e abbracciare, in quel vuoto, tutto ciò che cade nell’istante, tutto l’orizzonte o una sola foglia rossa dell’autunno.
Niente rumore, appena dei piccoli psssst... nemmeno pensieri, piuttosto sottrazioni, abbandoni, e perdite.
Ma subito l’Autore ci avverte che

non è per andare via
ma per restare più vicino..


Lasciare pesi, zavorre, beni, cose, armadi, elenchi, progetti, calcoli, giustizie. E soprattutto perdere l’orgoglioso e farraginoso IO che ingombra tutto e impedisce ogni amore:

Finalmente sconfitto
finalmente a terra, deluso, disarcionato.
Finalmente tutto è perduto, anche l’orgoglio
anche l’onore.


E io posso finalmente guardarli e riconoscerli
e finalmente amarli.


Allora la perdita diventa guadagno. Etica e letizia della sottrazione. Lasciare tutto il caduco senso dell’Avere per l’infinito leggerissimo Essere. E’ un giro di boa, un prima che avviene oltre il lungo viaggio: l’inizio bambino che cercammo tanto, accade qui, adesso, come un’epifania a un tratto. Allora tutto il complicato percorso che ci ha portato fin lì, si stempera in una parola semplice, cade la neve, da sola, senza manovre, i re magi si inchinano a una stella.
Ed ecco la poesia:

Scrivo una parola.
Come una luna piccola e acerba
in una notte d’inverno.
Come un incontro per poco mancato
un conto perfetto che non torna …


e ci dice lo stupore. La sorpresa di quando si lascia accadere qualunque cosa, una gioia come un disappunto, o un incontro per poco mancato, un conto perfetto che non torna. Semplicemente la poesia lo nomina senza giudizio alcuno, senza lamento, senza sofferenza, senza sospiro. Lascia cha accada in un respiro, uno sguardo, un rispetto immenso, una specie di curiosità sorridente e tranquilla.

Scrivo una parola e la guardo.

Solo in questo sguardo, comincia il grande spettacolo delle cose libere, che come gli atomi di Democrito, scendono dal cielo e costruiscono questo mondo bellissimo. E non c’è mai nulla che manchi, nulla di sbagliato o in più, ma tutto è dono, appartenenza e creazione.

Anche se non trovo le parole,
so che non c' è nessun errore;
...

C'è solo una occasione.
...
Prima o poi ci ritroveremo, tutti
sulla porta di casa, e avremo solamente
un piccolo rimpianto, prima di riconciliarci.


E’ come la prima settimana della Genesi, quando Dio si siede sui bordi dell’Universo e, guardando il pullulare delle cose che prendono forma davanti al Logos, vede “che tutto ciò è buono”. Stupefatto lui stesso, e non meno noi, non più figli di un Dio minore o di un peccato originale, ma tutti uguali, fatti della stessa sostanza terrestre e celeste, cinciallegre, alberi e usignoli...

Ma soprattutto noi:

più alberi degli alberi
più usignoli degli usignoli,
più pecore delle pecore,
più conigli dei conigli.


Ci si può fermare all’ apparenza, alla semplicità, al libero flusso delle evocazioni, delle sensazioni e delle idee, o andare oltre, accettare un compito, un dolce severo compito per la conquista della Libertà, uno spazio oltre l’illusione. E’ un lavoro che fa emergere il profondo Sé, e si trova proprio al crocevia zen del controllo mentale e della fede in questo Sé, giustificata dall’esperienza e dalla lunga disciplina. E’ un lavoro che fa emergere il profondo Sé, e si trova proprio al crocevia zen del controllo mentale e della fede in questo Sé, giustificata dall’esperienza e dalla lunga disciplina.
Così,

Se mai ti capitasse di sentire la mente confusa
se mai ti capitasse di non capire il senso della vita
vieni con me, lasciati andare.

Quando saremo sulla collina la terra ci sarà amica

Vedi, come tutto è infinito?

lasciati andare e ci perderemo,
perché è l’unico modo di ritrovarci
di essere quel che siamo da sempre,
per sempre.


Ci sono mille anni fra il Poeta che guarda una siepe sulle colline di Recanati e questo lavoro di scrittura sulle dolci colline emiliane. Mille anni tra questi due naufragi e questi infiniti.
Là c’era uno spiraglio di dolcezza davanti a una natura matrigna, qui non ci sono porte o fessure da cui entri il mondo ma un continuum fra sé e natura come un tutt’uno; là passato presente futuro e trascendenza, qui il solo istante presente ove abita un dio immanente uguale a sé; là l’immenso e il sublime e la nostalgia, qui il bagliore di un tesoro fra le dita ritrovato e certo; là la sconfinata bellezza della solitudine, qui la sconfinata bellezza dell’amore.
Perciò queste poesie andrebbero avvicinate, certo come un lavoro di stile e di scrittura, ma ancor più come un testo iniziatico, una specie di viaggio - e guida - spirituale.
Stilisticamente il libro è omogeneo, ma non è rintracciabile con certezza una linea logica fra i pezzi, che non seguono un crescendo compositivo, poiché la successione sceglie il procedere naturale degli avvenimenti quotidiani. Ci sono versi e immagini di grande bellezza, e tutto è minimo e immenso come l’oceano e la luna, ma non vi sono stilemi ritmici ricorrenti, o regole a cui l’Autore si rifaccia con preferenze certe. C’è una straordinaria levità, i lunghi equilibri, e quella purità adamantina; ma talvolta anche cacofonie, contrasti di ritmo, sorprese, durezze. Poiché l’incanto non è privo di disincanto e l’armonia viene dalla lucidità acuta di chi vuole e sa vedere davvero:

Dicono che c’è più luce,
più di quella che vediamo

Ma i miei occhi non sono abbastanza
aperti per vedere,
vedono soltanto
che ciò che vedono non basta.


Così queste pagine raggiungono territori e altezze che aprono in qualche modo un genere.
Vorrei che chi prende in mano questo libro, vi entrasse senza guide e corredi letterari, nudo. Vorrei che si lasciasse prendere la mano dalla magica maestria dei versi, e si potesse sentire arreso, affidato. Vorrei che attraversasse con coraggio il suo corpo calloso e si avventurasse ad occhi spalancati e buoni nell’altro emisfero del mondo. Là dove avviene il presente e l’oblio, il dolore cristallino, i baci, il revind e l’avanti veloce indifferentemente, l’assoluzione, lo zoom e la dissolvenza, il fuoco o il nulla. Il grande sorriso e l’amore.
Allora non so se sia la bellezza della poesia, o la bellezza dell’anima che la scrive. L’ampiezza che essa ha guadagnato negli anni, la libertà e la luce con cui essa, l’anima dell’Autore, spazia su queste colline, o la gioia pura che si prova leggendo.
Ma il fatto è che non si riesce a rinchiuderla in una descrizione critica, il filo scappa dalle mani e l’aquilone ci porta oltre la scrittura. Ci chiede qualcos’altro, ci insegna, o ci chiama, là dov’è il Poeta stesso con questi versi.
Insomma si apre qui un sentiero…oltre la poesia, per diventare cammino, spiritual, canto della contemplazione e del cambio di stato, la nostra materia quotidiana che ritorna spirito.

M. Lia Lotti